venerdì 21 luglio 2006

Spie contro spie contro spie contro spie contro spie...


Colonna sonora obbligatoria: Bauhaus, "A Spy in the Cab"

An eye for an eye
A spy for an eye
An eye for an eye
A spy for a spy...


N.B. Copincollo tutto l'articolo perché il finale della vicenda Abu Omar/Sismi è da romanzo (e poi l'articolo di Bonini potrebbe sparire nei meandri della Rete):

Il nastro smonta la linea difensiva tenuta sino qui dal Sismi sulla vicenda
I due parlano e il generale ammette che fu il direttore a dare il via all'operazione
"Pollari ordinò il rapimento"
Ecco il nastro che lo inchioda

di CARLO BONINI



Mancini e Pignero si incontraro davanti al negozio Ferrari in via Tomacelli a Roma
ROMA - Il direttore del Sismi Nicolò Pollari ordinò agli uomini della prima divisione del controspionaggio il sequestro dell'imam Abu Omar. Concordò personalmente l'operazione con l'allora capo della Cia in Italia, Jeff Castelli, nel suo ufficio di Palazzo Baracchini, sede del ministero della Difesa. Gli uomini della prima divisione lavorarono alla preparazione del piano e quindi lo informarono della loro contrarietà. L'operazione venne portata a termine il 17 febbraio 2003. Eccolo, dunque il segreto. Nessuno avrebbe dovuto o potuto violarlo. Nemmeno la Procura di Milano. Perché il segreto doveva morire con l'unico uomo del Servizio, oltre il direttore, che lo custodiva: il generale Gustavo Pignero, che oggi lotta con una malattia terminale. Ma alle 9 del mattino del 2 giugno, un microfono nascosto incide su nastro oltre 60 minuti di una conversazione che riscrive alcuni passaggi chiave di questa storia. Marco Mancini, numero due del Servizio, è a colloquio con il generale Pignero e al generale strappa con l'inganno la confessione che vale uno scacco matto.

Per trenta giorni quel nastro è rimasto nella cassaforte di uno studio legale nel cuore di Roma. Un'arma difensiva "a futura memoria". "Un'assicurazione sulla vita", come è prassi nel mondo fangoso delle spie. Il 7 luglio, il nastro viene ascoltato nella sala interrogatori del carcere di san Vittore, dove Marco Mancini risponde alle domande dei pubblici ministeri e del gip che lo hanno arrestato con l'accusa di concorso aggravato in sequestro di persona. L'11 e il 13 luglio, il generale Pignero, dal letto della sua abitazione, dove è costretto agli arresti domiciliari, riconosce la propria voce nel nastro. Trasforma una confessione rubata in una resa volontaria. Il segreto cede di schianto. La storia può essere riscritta. A partire dal primo pomeriggio del 1° giugno, a Milano, quarto piano del palazzo di giustizia.


Il generale Gustavo Pignero, ex direttore della prima divisione del controspionaggio, si presenta spontaneamente dal pubblico ministero Armando Spataro per proporre un nuovo aggiustamento alla versione ormai insostenibile con cui il Sismi, da oltre un anno, protesta la propria assoluta estraneità al sequestro di Abu Omar. Pignero ammette che qualcosa, nel dicembre 2002, è accaduto. Che Marco Mancini, allora coordinatore dei centri Sismi del nord Italia, arriva con la sua squadra a Milano con l'incarico di pedinare Abu Omar, studiarne le abitudini. Pignero spiega che l'operazione è fine a sé stessa e non ha un seguito. Che quando l'Imam sparisce nel febbraio 2003, di nulla il Servizio viene informato e nulla apprende. È una storia che non sta in piedi. Soprattutto perché monca.

Alle 15.22, Pignero ne parla al telefono con Marco Mancini. La conversazione è intercettata e vale la pena ricordarne un passaggio. "Ho tenuto fuori il number one", dice Pignero riferendosi a Pollari. Mancini vuole sapere in che modo e le risposte che sente non gli piacciono affatto. "Così mi metti nei casini", dice a Pignero.

Marco Mancini - per quel che ha raccontato ai pubblici ministeri dando conto di quella telefonata, come di quella ancora più importante che segue - è convinto di essere finito in una trappola. Due settimane prima, Pollari lo ha scaricato, rimuovendolo dal comando della prima divisione del controspionaggio e costringendolo ad un congedo per malattia. Ormai, del direttore del Servizio, Mancini pensa tutto il male possibile ("È un codardo e i codardi vanno fucilati alla schiena", dice in uno dei suoi sfoghi telefonici).

Capisce, ascoltando Pignero, che aver consegnato il suo nome a Spataro e averlo collocato sulla scena del sequestro poche settimane prima che avvenga, equivale ad averlo condannato. Alle 16.57 di quello stesso giorno, chiama Luciano Seno, ufficiale del Sismi che gli fa da tramite con Pignero. Gli racconta una balla: "Ho saputo che forse mi chiamano in Procura... Dì a Pignero che ci vediamo domattina a Roma, alle 9 in via Tomacelli, alla "Ferrari"".

Marco Mancini ha già deciso cosa vuole fare. Ne ha parlato con i suoi avvocati e se ne è convinto una volta di più. Sabato 2 giugno, di buon mattino, infila la giacca e sistema come sa la cimice che dovrà registrare ogni sussurro della conversazione che si prepara ad affrontare con Pignero. Mancini racconta ai pm milanesi che, quella mattina, non ha altra scelta. Sa come sono andate le cose con Abu Omar. Ma sa anche che, se tutto dovesse precipitare, nessuno gli crederà. Se resterà stritolato dall'inchiesta della Procura di Milano, la sua parola non varrà nulla contro quella del direttore del Servizio e del generale Pignero, che di Mancini è stato il superiore. Non ci sono pezzi di carta cui aggrapparsi. Nulla di nulla. C'è una sola strada. Tirare in trappola Pignero. Fargli raccontare la storia che Mancini ha ascoltato tante volte dalle sue labbra e che ora il generale si rifiuta di raccontare ai pm milanesi.

Alle 9 del mattino di sabato, non c'è grande animazione in via Tomacelli. Le vetrine del concessionario "Ferrari" sono sul lato sinistro della strada che unisce il Tevere a via del Corso. Lungo lo stesso marciapiede su cui affacciano le redazioni dei quotidiani il manifesto e Corriere della Sera. Pignero e Mancini si salutano. Non sanno di essere pedinati e fotografati dalla Digos, ma questo poco importa. I poliziotti sono lontani e non possono sentire quel che i due hanno da dirsi. Camminano lentamente. Mancini comincia a sollecitare Pignero e Pignero parla. La cimice cattura le due voci e incide su nastro.

Mancini chiede: "Ti ricordi Gustavo? Ti ricordi che l'ordine del sequestro arrivò dal direttore". E Pignero: "Sì me lo ricordo". Ancora Mancini: "E ti ricordi che dissi ai miei che dovevamo prenderlo? E ti ricordi che, dopo due giorni, ti dissi che non si poteva fare perché non siamo in Sudamerica?". "Sì, me lo ricordo". "Ti ricordi che non fui io a decidere il trasferimento a Roma di D'Ambrosio (il capo centro Sismi di Milano). Che io lo volevo mandare a Trieste?". "Sì". Mancini fa ammettere dunque a Pignero che l'ordine del sequestro arrivò direttamente da Pollari e che lui espresse il suo dissenso attraverso le vie gerarchiche.

Di più: fa dire a Pignero che se fosse stato vero che il trasferimento improvviso di D'Ambrosio da Milano avesse avuto a che fare con il sequestro non avrebbe avuto senso raccomandarne l'assegnazione a Trieste, il centro Sismi con competenza sulla base di Aviano (luogo in cui Abu Omar sarà prelevato da un aereo della Cia diretto a Ramstein e da qui in Egitto).
Ma per Mancini il lavoro è ancora a metà. Non può dirsi completo senza far dire al generale cosa è accaduto a Roma, a Palazzo Baracchini.

Pignero ammette che sulla vicenda Abu Omar ebbe con Pollari due incontri. Il primo, nell'inverno del 2002. "Sì, è vero, entrai nell'ufficio di Pollari mentre ne usciva Jeff Castelli (allora capo della Cia in Italia) e notai che aveva lasciato una busta sulla scrivania". Pignero fa riferimento alla lista dei 12 sospetti che la Cia intende rimuovere all'inizio del 2003. A Milano, Torino, Vercelli, Napoli. Ma, soprattutto, Pignero spiega che, sollecitato dalla Cia, Pollari ha immediatamente mobilitato lui e gli uomini della prima divisione che in quel momento comanda. E non è tutto. Stimolato, Pignero ricorda anche il secondo incontro con Pollari, quando torna a riferirgli del dissenso manifestato da Mancini all'operazione di sequestro: "Gli riferì che per noi l'operazione non si poteva fare e lui prese atto".

Siamo all'epilogo. Mancini chiede a Pignero perché si ostini a non raccontare tutta la storia alla procura di Milano. Il generale risponde: "Sono molto malato e non ho nulla da perdere. In questa storia, preferisco saltare io, piuttosto che far saltare il direttore. Perché se salta il direttore, salta il governo e saltano pure i rapporti con gli americani". Ora, Mancini ha davvero tutto ciò che gli serve. Nella prima settimana di giugno, consegna il nastro ai suoi avvocati. La bobina resta in una cassaforte fino alle sei del mattino del 5 luglio. Quel giorno, mentre una macchina della Digos, vola da una casa di Lugo di Romagna (l'abitazione di Mancini) verso il carcere di san Vittore, gli avvocati Luigi Panella e Luca Lauri si affannano a trascrivere la confessione rubata di via Tomacelli.

Certo, devono dimostrare che quel nastro non è un trucco. Ma Mancini, questa volta, ha fortuna. Quella mattina del 2 giugno, mentre parla con Pignero, il suo cellulare squilla. Lo cerca Gian Vigio Curti, l'ufficiale che ha preso il suo posto al vertice della prima divisione. E' una conversazione brevissima. La cattura la cimice che Mancini nasconde nella giacca. Ma la registrano anche i nastri con cui la Digos tiene sotto controllo il telefono di Mancini. Sovrapposte, le due registrazioni combaciano. È la prova che convince i pm di Milano che la bobina di Mancini non è un arma posticcia. Mancini lascia san Vittore. Pignero confessa e ritrova la libertà. E quel che il generale Pollari ha scritto neppure due settimane prima per "la Rivista di Intelligence", nel numero di giugno dedicato ai "Sequestri di Stato", sembra ora davvero un beffardo epitaffio: "Nel deserto di ombre e di specchi dell'intelligence solo la pienezza dell'umanità, coerente con i fondamentali principi etici e morali, può riuscire a illuminare la realtà".

(21 luglio 2006)

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