martedì 13 dicembre 2005

Gli stadi dentro il cervello

In Italia c'è una legge, la legge n. 205 del 25/6/1993, che punisce "chi pubblicamente esalta esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche. Se il fatto riguarda idee o metodi razzisti, la pena è della reclusione da uno a tre anni e della multa da uno a due milioni."
Di Canio, un passato da ultras rivendicato con orgoglio e un'ammirazione per Mussolini "l'ultimo dei grandi nazionalisti (sic)", è fascista ma non può dirlo pubblicamente perché sa che è reato.
Perciò lui e i suoi camerati la buttano sempre in goliardia, in folklore. E dall'altra parte c'è chi risponde con Che Guevara e la Stella Rossa, simboli discutibili quanto si vuole ma perlomeno non illegali.
Ma quel che mi interessa è il tipo di reazione di chi, rappresentando le istituzioni pubbliche, quindi lo Stato, come per esempio il vicepresidente della Federcalcio, Giancarlo Abete, che ha dichiarato: "La politica deve restare fuori degli stadi: commetteremmo un errore grave a trasformare gli impianti in teatri per esternazioni di culture che non appartengono a quella calcistica".
Ecco questa retorica della "politica fuori dagli stadi", nel paese di Berlusconi in particolare, farebbe ridere se non fosse così seria. La politica non è un corpo estraneo alla società ed alle sue numerose rappresentazioni: il teatro, la letteratura, il cinema, la televisione, ogni tipo di manifestazione pubblica di sé e di ciò che, volontariamente o meno, si rappresenta, sono politica. La politica non è una cosa sporca da tenere lontana, fa parte dell'uomo che vive in società (e nel villaggio globale nessuno vive fuori dalla socialità), anzi sarebbe la progettazione di modi sempre migliori di convivere.
Eppure viene ormai vista solamente come schieramento, come dicotomia: non è il calcio metafora della politica, ma la politica come viene intesa oggi (in Italia, col maggioritario in particolare) ad essere una metafora del calcio, dello stadio. Anche fisicamente, siamo tutti disposti su un ampio anello, diviso verticalmente in tribune di vario prezzo (la classi sociali) ma anche orizzontalmente in tifoserie, in partiti opposti, in fazioni e in correnti. Ora, è curioso come si guardi solo alla divisione orizzontale e mai a quella verticale. Forse perché il nostro sguardo è attirato a forza sul campo o sulla curva opposta alla nostra.

1 commento:

Anonimo ha detto...

...lascia perdere di canio...quello non è neanche il saluto romano.Tranquillo.